Trattare del cancro, oggi, significa occuparsi di un tema che non può più essere confinato al solo aspetto biologico e anatomico dell’uomo. Impone affrontare un universo di rimandi e di sensi molto stratificati, multidisciplinari e densamente intrecciati a componenti psicologiche, sociologiche e filosofiche. Ovviamente la conoscenza biologica è al fondo di qualsiasi riflessione.
La diagnosi di tumore rappresenta per il paziente, per la sua famiglia e per gli amici una notizia sconvolgente, in grado di stravolgere tutti gli aspetti della propria vita. Si assiste ad un cambiamento radicale del rapporto con il proprio corpo, del significato attribuito alla sofferenza, alla morte, alle relazioni interpersonali. Di fronte a una diagnosi di tumore, la persona può sentirsi disarmata e contemporaneamente pronta a ribaltare le priorità della vita, nella quale tende a crearsi una sorta di “effetto massa” provocato proprio dal tumore. E non potrebbe essere diversamente se riflettiamo sul fatto che l'”Oncologia”, etimologicamente, è un discorso (logos) sulla massa (onkos). Sul soggetto paziente, sulla persona su cui viene a cadere la diagnosi di cancro, con tutto il suo pathos (letteralmente: emozione troppo forte, incontenibile…) si affollano immagini portatrici di un carico insostenibile.
E’ possibile controllare il dolore, l’ansia, la paura collegati all’insorgenza di un tumore? E’ possibile guardare con speranza al futuro?
Cos’è che caratterizza il vissuto del malato di cancro?
Le nozioni di malattia e guarigione rimandano al concetto di salute, che, essendo cultural-dipendente, assume significati assai diversi a seconda della situazione di riferimento. Attualmente le scienze biologiche e mediche, in occidente, con il relativo campo di ricerca, derivano dalla visione cartesiana, per la quale, esiste una divisione tra “res cogitans” e “res extensa”: l’uomo è visto come una macchina, l’individuo sta bene quando tutti i pezzi funzionano a dovere, quello che conta è il buon funzionamento della macchina, ivi compresa la macchina uomo, e, in questo senso, ogni evento che si frapponga al raggiungimento di questo valore è visto come qualcosa di spiacevole e inaccettabile che non va compreso, ma solo eliminato in gran fretta.
In tutto ciò, chiaramente, rientra la questione della malattia, per non parlare della morte, eventi ambedue che bisogna tentare di risolvere in modo illusoriamente perfetto. Tale modello offre forse da un lato garanzie di rigorosità, ma, per altri versi si rivela assai pericolosa, poiché allontana il soggetto dall’assumersi realisticamente la responsabilità della propria vita e della malattia, che, se capita, rappresenta in ogni caso un evento che, inevitabilmente e purtroppo spesso dolorosamente, deve inserirsi nel campo della propria esistenza e dei suoi propositi.
Dai diversi studi e relative esperienze, si evince come inevitabilmente i malati di cancro spesso sperimentino il cosiddetto “lutto della progettualità”. Non si intende solo che il lavoro e le vicende personali e familiari della persona si dovranno fermare a più riprese (per ricoveri, accertamenti, terapie traumatiche ed invalidanti, possibili recidive…) e che la prospettiva di vita non sarà comunque più garantita da quel sentimento illusorio, così diffuso e “normale”, che siamo sani ed in grado di controllare attivamente il nostro tempo e la nostra vita. Si intende più precisamente il fatto specifico che molti malati di cancro perdono, a tratti o del tutto, la spinta a progettare fluidamente la propria vita nel futuro. Smettono di fare programmi o perdono il gusto di farli, al punto che parenti ed amici cercano di contrastare questa tendenza negativa spingendoli a “vivere alla giornata” ed a fare almeno dei progetti minimali, per la prossima ora, per il prossimo giorno, per il prossimo mese.
L’attesa e il lutto della progettualità
Minkowski nella sua opera “Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia (1933)” scrive con grande sensibilità che «il fenomeno vitale che si contrappone all’attività non è la passività bensì l’attesa».
Nel pensiero dello studioso tedesco «l’attesa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato. L’attesa per l’individuo diviene un fattore di arresto brutale, che toglie il respiro, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà fatalmente a schiantarsi subito dopo. Si direbbe che tutto il divenire, i s progetti di vita di quella persona, si avventino su di lui come una massa possente e ostile che cercano di annientarlo. […] L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa che tra un attimo lo inghiottirà. L’attesa è una sospensione di quell’attività che è la vita stessa. Nell’attività […] la persona tende verso l’avvenire, nell’attesa vive il tempo in direzione opposta, è l’avvenire ad andare verso di lui, in maniera immediata, con tutta la sua irruenza». (pag. 83-84)
I malati oncologici, un volta ricevuta la comunicazione della diagnosi, sperimenterebbero troppo spesso il vissuto dell’attesa (le analisi di laboratorio, le terapie, i controlli successivi, l’angoscia di una sempre possibile temuta recidiva) col rischio di abbandonare ogni spinta naturale alla progettualità per evitare il ripetersi di nuove inevitabili attese.
Questo stato mentale blocca il fluire del tempo vissuto, e quindi la possibilità di progettare l’esistenza, e produce l’effetto di un lutto, di una perdita assoluta. Progettare del resto deriva, etimologicamente, dalla stessa radice del termine proiettare. Quando noi progettiamo mettiamo fuori da noi, nel mondo reale, i frutti della nostra immaginazione. In questa operazione mentale c’è sempre, implicita, la dimensione del presente vissuto e del futuro vivibile, e l’immaginazione di uno spazio in cui il progetto è realizzabile. Nel malato oncologico ci troviamo di fronte ad un blocco particolare del tempo vissuto, un blocco in tensione.
La libertà di sentirsi furiosi
Il cancro, più di ogni altra malattia, esige quindi dalla persona uno sforzo costante e ripetuto di adattamento. La psicologia oncologica mira a promuovere l’adattamento psicologico che ha l’obiettivo di garantire l’integrità psichica e fisica del paziente, affrontare i disturbi modificabili e integrare quelli irreversibili. In ciascuna fase della malattia, le reazioni psicologiche di una persona sono il risultato di un’integrazione complessa tra il ricordo delle esperienze passate, la percezione della minaccia futura e le risorse disponibili.
I livelli di ansia, rabbia e depressione sono indici della reazione normale del paziente alla malattia. Quando tali livelli sono elevati o con manifestazioni croniche e associati a un’intensa sofferenza soggettiva, a un funzionamento psicosociale e a relazioni interpersonali compromesse, è opportuno parlare di reazione patologica. Per molti pazienti (e familiari) la rabbia è un sentimento inadatto a un malato di cancro. Invece è normale provarla e può persino essere utile se si impara a incanalarla e trasformarla in energia positiva e forza di lottare.
Prima o poi, la rabbia monta. Può arrivare in modi diversi, in tempi diversi, ma quando ci si trova a fare i conti con un tumore per molti è quasi inevitabile sentirsi arrabbiati. Arrabbiati con il mondo, con se stessi, con la famiglia e con i curanti. È un sentimento naturale, soprattutto quando ci si sente particolarmente vulnerabili, ed è naturale che in certi momenti prenda il sopravvento. Alcune volte, può trattarsi anche dell’effetto di uno dei farmaci prescritti.
La psicoterapia nei malati oncologici
La psicoterapia viene spesso presentata ai pazienti come un progetto, come qualcosa che si comincia oggi pensando al domani. Il malato di cancro si sente spaesato e senza presente, non ha un hic et nunc e non ha neppure un futuro progettabile: il suo futuro è pre-occupato da un processo occupante spazio (è così che si chiamano i tumori nel gergo oncologico…) dall’iceberg di Minkowski. Rimane perciò fondamentale per i malati di cancro, mettere a tema i loro vissuti, partendo dai loro bisogni emotivi, dalle loro angosce.
Il trattamento psicologico permette al paziente e ai suoi familiari di acquisire gli strumenti necessari per gestire il disagio indotto dalla malattia ed eventuali comportamenti di evitamento relativi a programmi terapeutici o controlli. La neoplasia si costituisce, infatti, come l’elemento scatenante di una crisi globale, di una modificazione dell’ambiente psicologico e dell’ambiente sociale, tale da determinare un clima paralizzante d’isolamento e da assumere un significato di minaccia alla propria esistenza, integrità, identità e ruolo. Pazienti e operatori si trovano normalmente a confronto con i grandi dilemmi dell’esistenza che il cancro e la malattia oncologica implicano:
- vita/morte;
- salute/malattia;
- piacere/sofferenza;
- giustizia/ingiustizia;
- condivisione/solitudine;
- reagire/subire;
- conoscere/scegliere di ignorare.
Un approccio alla malattia, di qualunque natura sia, non dovrebbe mai limitarsi a indagini anatomopatologiche specifiche sui vari organi, ma dovrebbe tener presente la necessità di operare un passaggio dal discorso del “disturbo”, sia esso fisico o psichico, riferito al concetto di “organismo”, a quello di “sintomo”, che introduce alla questione del “corpo”.
Il razionale di questi aspetti è semplice: se i malati di cancro sono spaesati, disturbati nel senso del limite del Sé, l’operazione psicoterapeutica fondamentale è la promozione del costrutto di resilienza, con la quale si intende la capacità di una persona di svilupparsi positivamente, di continuare a progettare il proprio futuro, a dispetto di avvenimenti destabilizzanti, di condizioni di vita difficili e di traumi anche severi (Aspinwall LG, Clark A (2005).
Il termine resilienza implica due aspetti: la resistenza ad un trauma, ad un avvenimento, ad uno stress riconosciuto come serio e un’evoluzione soddisfacente, socialmente accettabile; tale termine sembra dunque riferirsi ad un processo complesso risultante dall’interazione tra la persona e il suo ambiente.
La maggior parte dei ricercatori (in Costanzo ES, Lutgendorf SK, Rothrock NE, Anderson B, 2006) sembra concordare sul fatto che la resilienza si definisce meglio in termini di processo piuttosto che di risultato. Il processo di resilienza è una prospettiva che esamina il ciclo di vita e non è mai assoluta, totale, acquisita una volta per tutte, ma varia a seconda delle circostanze, della natura del trauma, del contesto, dello stadio di vita e si può esprimere in modo differente secondo le differenti culture.
Le risposte degli individui alle malattie sono chiaramente diverse a seconda delle caratteristiche di queste ultime, in relazione al tipo, alla gravità, alla durata della malattia stessa. L’efficacia clinica degli interventi psicologici e psicoterapeutici in pazienti con diverse tipologie di tumore è stata ampiamente dimostrata nella letteratura specialistica. In particolare si è osservato la riduzione di tensione, rabbia, insonnia, ansia, depressione, una migliore capacità di adattamento alla malattia, una migliore comunicazione con i familiari e lo staff medico, un aumento dell’autostima e dell’immagine corporea, una migliore gestione dello stress e della relazione con il partner (National Cancer Policy Board, 2004; Hogan et al., 2002; Goodwin et al., 2001; Kissane et al., 1997).
Riferimenti
Aspinwall LG, Clark A (2005). Taking positive changes seriously: toward a positive psychology of cancer survivorship and resilience. Cancer. 104(11 Suppl):2549-56
Costanzo ES, Lutgendorf SK, Rothrock NE, Anderson B (2006). Coping and quality of life among women extensively treated for gynecologic cancer. Psychooncology. 15(2):132-42.
Hogan B.E., Linden W., Najarian B. (2002), Social support interventions. Do they work? Clin Psychol Rev 22: 38
Goodwin P.J., Leszcz M., Ennis M. et al. (2001), The effect of group psychosocial support on survival in metastatic breast cancer, N Engl J Med 345: 1719–1726. 1–440.
Kissane D.W., Bloch S., Miach P. et al. (1997), Cognitive-exixtential group therapy for patients with primary breast cancer. Techniques and themes. Psycho-Oncology 6: 25-33.
Minkowski E. (1933) Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia. Einaudi, Torino, 2004.
National Cancer Policy Board (2004), Meeting Psychosocial Needs of Women with Breast Cancer. Institute of Medicine: Washington, DC.
Seckel A. (2004) Masters of Deception – Escher, Dalì & the Artists of Optical Illusion. Sterling, New York.
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